Luis Chiozza, la psicoanalisi e “Las cosas de la vida”

17 marzo 2020

Entrevista al Dr. Chiozza en Roma para ytali. Rivista plurale online.


Por Mario Gazzeri / 7 de marzo de 2020

In un recente incontro a Roma con Luis Chiozza, abbiamo chiesto al celebre psicoanalista argentino cosa pensasse della diffusa infelicità della gente comune che si può osservare fin dal mattino in ogni grande città. Operai, impiegati, ma anche giovani che affollano silenziosi le vetture dei tram e degli altri mezzi pubblici, gli occhi ormai privi di ogni ombra di una sia pur fuggevole gioia. “Ma io non sono un sociologo, sono uno psicoanalista!” ci ha risposto l’89enne studioso, ammorbidendo subito dopo il tono e rivestendo i panni della cortese persona che in realtà è.

Ad esser sinceri, e a nostro parere, il sociologo studia i fenomeni di massa senza tuttavia proporre terapie o soluzioni ma piuttosto sottolineandone tendenze, motivazioni e orientamenti. E sono stati invece proprio i grandi psicologi, primo fra tutto Wilhelm Reich, a studiare la cosiddetta “psicologia delle masse”, cioè il comportamento dell’individuo e la sua spersonalizzazione se inserito in una realtà fisica o in un pensiero dominante in cui la singola persona si annulla nella massa. Ma Chiozza probabilmente voleva ricondurre il dibattito ai temi a lui più cari, inerenti – tutti o quasi tutti – all’individuo. Un’autorità soprattutto nel campo della psicosomatica, lo psicoanalista di Buenos Aires ha scritto oltre venti libri, molti dei quali pubblicati anche in inglese, italiano e francese. Il suo “pensiero”, sembra partire dall’assunto di Freud secondo cui

la terapia psicoanalitica non ci promette di sostituire la sofferenza con la felicità ma, più modestamente, si propone di sostituire la sofferenza nevrotica con la sofferenza che è normale nella vita.

E d è su questo tema, di cui parla anche nel suo libro Le cose della vita (Las cosas de la vida) recentemente ripubblicato in Italia dalle edizioni dell’Istituto Aberastury, che Luis Chiozza ha voluto fare alcune illuminanti considerazioni. Le cose, i momenti della vita sono dunque i passaggi d’età, le amicizie, il lutto, gli amori e i rapporti con il lavoro, le scelte e il tempo libero e così via, fino ad arrivare alla conclusione della vita terrena e alla paura per il trapasso finale. Come sottolineano i curatori del libro, Carlo e Rita Brutti, Le cose della vita tratta di ciò che per noi ha importanza, in particolare le difficoltà, i piaceri, le gioie e le sofferenze che quotidianamente danno forma ai diversi momenti della nostra relazione con gli altri e con noi stessi.

Tra i temi trattati nella conferenza, che ha seguito la “scaletta” dei capitoli del libro, ci è parso davvero interessante ciò che Chiozza ha voluto dire in merito al “malinteso” che, ha precisato, “nel mondo di oggi è onnipresente”.

Non è solo nel mondo in cui soddisfiamo i nostri bisogni fisici che viviamo, cresciamo e ci sviluppiamo. Cresciamo e ci sviluppiamo anche grazie al fatto di vivere immersi in un mondo di scambi verbali,

dice lo studioso chiarendo poi,

è vero che abbiamo bisogno di parlare, ma è chiaro che abbiamo bisogno di farlo “riuscendo a dire”

Il racconto tra due persone comincia con un saluto o un “come va?” definito da Chiozza come “la carezza primaria”.

Accade spesso [spiega lo psicoanalista] che abbiamo un bisogno perentorio – come l’assetato che ha bisogno di acqua – di poter cominciare a raccontare.

Se nella vita “niente rimane uguale” è possibile che l’interlocutore col quale oggi possiamo capirci, domani forse non riuscirà a comprendere quello che pensiamo o che sentiamo. A quel punto è chiaro che emerge quello che Chiozza chiama “il malinteso”.

In breve, conclude lo psicoanalista,

viviamo in un’epoca in cui si parla sempre di più, si pubblica di più, si scrive di più ma si dice di meno.

La diversa “velocità” di progredire o, occasionalmente, di regredire, che ha ciascuno di noi fa sì che la sintonia che sentiamo con alcune persone si modifichi necessariamente con il passar degli anni. Un tema che, sostiene Chiozza, è molto sentito nel rapporto analista-paziente. Rapporto a proposito del quale, lo studioso argentino (che si è dilungato sul valore del “segno” e del “sottinteso”) fa l’esempio di una medaglietta che sul recto abbia incisi alcuni simboli e caratteri e, sul “verso”, altri segni differenti.

Si tratta di un contrassegno di cui ognuno di noi ha una metà; simbolo è ciò che funziona solo quando colui che lo dice si rivolge ad un ascoltatore che ha ciò che “manca” per interpretarlo.

Vale a dire che un simbolo è sempre, nel campo del linguaggio parlato, una mezza parola. E sembra un paradosso – conclude Chiozza – che l’unico modo che abbiamo di capirci sia con la metà delle parole e che, se manchiamo di questa mezza parola, corriamo il rischio di non capirci mai o, peggio ancora, corriamo il rischio di cadere in un malinteso.

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